Il Mito di Pan e l’attacco di panico.
L’articolo che viene proposto viene estrapolato da una complessa serie di lavori di approfondimento sul panico, che si sono concretizzati appunto in un lavoro presentato al Forum mondiale IFPS svoltosi a Firenze nell’Ottobre del 2018.
Questo mio lavoro sembra andare in direzione contraria rispetto all’attualità del pensiero psicopatologico legato al panico ma sono convinto dell’utilità di dare spazio al mito per la fatica che abbiamo nel quotidiano di dialogare con la paura che troppo spesso sembra sfuggire alla nostra comprensione. Ritornare ai modelli mitici apre invece uno spazio in cui è possibile psichicizzare l’istinto. Non importa che ve lo ricordi, la psicoanalisi si è sempre servita dei miti per spiegare l’inconscio, per aiutarci a relazionarsi con il reale. Senza considerare poi che i processi di mentalizzazione passano continuamente attraverso processi di pensiero di tipo intuitivo al ragionamento riflessivo, dal “mithos” al “logos” appunto.
Così dal mio punto di vista nella complessità moderna, assai lontana dalle radici delle nostre origini, la figura mitologica del dio Pan ci propone una riflessione sulla paura e sul senso del panico. Sebbene Pan sia un mito molto importante, per esempio risulta essere una delle poche figure della mitologia greca alla quale era direttamente attribuito il disturbo mentale; purtroppo oggi, non gode di un’estrema popolarità, al contrario, negli studi di psicologia, è facile incontrare Pan che configura la rappresentazione del panico e della sessualità, ma anche la relazione tra psiche, istinto e colpa.
La via indicata da Nietzsche nella comprensione del rapporto tra il mito e la mente, espressa con Apollo e Dioniso può essere estesa a Pan e mostrare come l’arcaico possa riprodursi in forme sempre nuove e ricorrenti, in uno spazio “zeitlos” (senza tempo). Daltronde, questo è ciò che ci disse Sigmund Freud ‘scoprendo’ il complesso di Edipo: scoprì che la psicopatologia è la messa in atto di un mito. Affermando in ultima analisi che la metapsicologia fatta di assiomi teorici corrispondente ad un visione scientifica e positivista, prende spunto dalla mitologia. Karl Abraham vedeva nel mito un brano della superata vita infantile dei popoli, tradotto dalla psiche in un linguaggio simbolico. Carl Gustav Jung scorgeva nel mito, nella religione, nel sogno un’origine di qualcosa di transpersonale, collettivo. Con una differenza: nel sogno, le rappresentazioni si impongono autonomamente, invece nei miti la loro configurazione viene da una stratificazione culturale; e in ambedue, si rendono evidenti gli archetipi. Freud era certo dell’esistenza di una precisa corrispondenza tra significante (onirico/mitologico) e significato (inconscio), per cui considerava possibile una chiara lettura del sogno e del mito, che riconducesse alla realtà e ai significati psichici originari, mascherati dall’inconscio. Dato che per Jung invece, i miti e i sogni non stanno al posto di qualcosa che è stato cosciente, ma evocano ciò che è essenzialmente inconscio, il simbolo junghiano non svolge, come in Freud, una funzione equilibratrice, bensì dinamica e trasformativa. Nella mia pratica clinica tendo ad unire queste due teorizzazioni in base alle associazioni che il mito e il sogno permettono. La congiunzione trova a mio avviso sintesi nel pensiero di Wilfred Bion, dove l’inconscio non è il rimosso come sosteneva Freud ma il pensato e dove l’essenza del mito, in specifica, produce ordine, connessione tra le parti e trasmissione di senso. Attraverso l’indagine sul flusso associativo in seguito alla storia mitologica, i miti assolvono un fattore generativo di contenuti analitici e una funzione trasformativa alfa di secondo grado, dalla realtà interna alla realtà esterna. Siamo agli antipodi di una tradizionale pratica analitica, poiché si tratta di usare un materiale inconscio (la catena delle libere associazioni) per interpretare uno stato mentale conscio, i miti.
Un altro aspetto che ritengo fondamentale è il legame tra mito e simbolismo. Il mito ci pone di fronte ad un simbolo, qualcosa che sta a significare qualche altra cosa, un’eccedenza di significato, un rilievo sentimentale. Così il mito diviene al contempo la più primordiale forma di arte e insieme lo scopo ultimo dell’arte, nella quale reale e ideale, mondo e divinità, tornano ad unirsi. Lo stato di panico, al contrario, ci rivela un’inconsistenza del simbolico, con una conseguente impossibilità di ricoprire senza scarti il reale lasciandoci all’abbandono e alla morte, al sesso e alla pulsione.
Giungiamo adesso al tema più elevato della mitologia, quello di ritenere l’origine delle cose del mondo da una matrice comune. Il mito partecipa a rendere il genere umano una unità e spiega la comprensibilità delle diverse culture, anche le più lontane. Erich Fromm ci parla di umanesimo radicale: è vedere nell’essere umano la radice di tutto. Il presupposto è che esista una natura umana come caratteristica di base comune a tutti gli uomini, i quali presentano non solo una stessa anatomia e una stessa fisiologia, ma anche una medesima struttura psichica.
Veniamo al mito: Pan era il più importante dio pastorale dell’Arcadia e il suo culto fu diffuso in tutta la Grecia tramite le feste orgiastiche di Dioniso, al cui seguito appartiene. I greci lo rappresentavano con zampe di capro, corpo villoso, barba e orecchie a punta, riso furbo e corna di animale. Era il dio della natura, della selva, dei monti e dei boschi, che cacciava, danzava e amoreggiava con le Ninfe e con gli animali. Per queste sue caratteristiche venne considerato il dio dell’istinto naturale, il più importante dio della fecondità, il simbolo degli irrefrenabili istinti sessuali dell’uomo, il signore degli animali, il creatore di tutti gli esseri viventi. Egli era un dio dei pastori, un dio dei pescatori e cacciatori ma un vagabondo privo persino della stabilità derivante dalla genealogia. Infatti gli sono attribuite almeno venti origini di Pan, suo padre fu di volta in volta Zeus, Urano, Crono, Etere, Apollo, Odisseo, Hermes. Rispetto alla maternità invece l’Inno omerico a Pan, lo mostra abbandonato alla nascita da sua madre, una Ninfa dei boschi, avvolto in una pelle di lepre da suo padre Hermes, il quale portò il bambino sull’Olimpo dove fu accolto da gli dei con gioia. Per questa ragione veniva considerato come figlio di Hermes per ragioni adottive.
Successivamente rifiutato per il suo aspetto mostruoso dagli dei Olimpici, amanti del bello, fu Pan, però, che soccorse Zeus in ogni sua difficoltà. Durante la gigantomachia, guerra degli dei Olimpici con i giganti della terra, emise urla così terribili e selvagge che spaventarono e misero in fuga i Titani. Da questo evento ebbe origine la parola panico. Nella sua natura vi era anche un istintivo bisogno di raccoglimento e di quiete, per questo cercava, nelle ore più calde del giorno, un luogo tranquillo e ombreggiato dove riposare e guai, a chi avesse osato rompere l’armonioso silenzio della natura, infuriato si sarebbe messo all’inseguimento dei malaccorti disturbatori, i quali sorpresi si sarebbero dati ad una pazza fuga presi dal timor di panico.
Numerose effigi lorappresentano spesso tra cime montuose e grotte, tra clamore e musica, tra panico e stupro, in solitudine o in compagnia delle Ninfe. Le Ninfe rappresentano la personificazione dei filamenti e dei banchi di nebbia sospesi sulle valli, sulle pareti montane e nelle sorgenti che velano le acque e danzano sopra di esse, testimoniando la loro dimensione eterea. L’etimologia greca non vuol dire altro che fanciulla fatta o ‘signorina’. Dal punto di vista caratteriale presentavano una vergogna, una timidezza, uno sgomento verso la natura. Molte ninfe non hanno nome, questa impersonalità le fa emergere solo come l’oggetto della pulsione e Pan le insegue per i boschi e le valli per amarle o violentarle. Entrambi, Pan e le Ninfe dimostrano un’incompiutezza, che resta sospesa in un amore non ancora coppia, nell’orrore della sessualità pulsionale da una parte e negli svenimenti, nelle fughe nevrasteniche nel sistema vegetativo dall’altra.
Più tardi, Pan divenne il dio protogenio dell’universo, il dio infine del ‘gran tutto’. Tutto si intende riferito alla sua funzione paterna e insieme a quella di pastore, come colui che genera e colui che nutre. Compiere funzioni paterne significava generare gli esseri viventi attraverso il fallo, nel quale ci sono i semi di tutte le cose. Quindi ‘tutto’ era sinonimo di fallo, e Pan veniva identificato come ‘fallo mistico’ padre di tutte le creature ed espressione di una potenza sessuale sovrannaturale.
Per queste ragioni col cadere del paganesimo egli passò nell’ordine dei semplici demoni, e le sue fattezze indussero i cristiani ad identificarlo come il diavolo. Pan morì quando Cristo divenne sovrano assoluto. Il contrasto fu riflesso nelle rispettive iconografie: “L’uno nella grotta, l’altro sul Monte; l’uno ha la musica l’altro la parola; Pan ha le zampe pelose, piede caprino, è fallico; Gesù ha gambe spezzate, piedi trafitti, è agenitale”.
Freud tratta il tema del panico, nel libro Psicologia delle masse e analisi dell’io, considerandolo generalmente determinato dalla rottura dei legami libidici e affettivi. I vincoli reciproci, legati alla massa, hanno cessato di sussistere, il soggetto si sente perduto, si scatena così una paura irragionevole e ognuno si preoccupa esclusivamente di sé senza tener conto degli altri. L’esperienza panica può manifestarsi in due condizioni, può esserci paura panica, una sorta di fuga precipitosa, oppure, può esserci angoscia panica come vuoto, un non essere, con una conseguente inibizione del comportamento motorio, o entrambe. Le Ninfe esibiscono, ambedue le condizioni, la fuga e l’inconsistenza dell’essere etereo.
Discutendo del panico ritengo che la paura permette di vedere oltre la trama, alla ricerca di parti conosciute della nostra esistenza mai in fondo dimenticate. Se ci rivolgiamo verso noi stessi viviamo un’esperienza di essere indifesi, che ci riporta ad una esperienza infantile di debolezza, dove il materno era l’unica ancora di sopravvivenza. Quando viviamo l’esperienza dell’abbandono non dobbiamo avere eccessivo timore del rapporto con il nostro vissuto. Spesso l’attacco di panico è paradossalmente l’elemento di coerenza in un rifiuto costante della propria identità, della verità, del rapporto con la propria interiorità.
E nel panico quale sarebbe la verità che viene messa in gioco? In estrema sintesi potremmo dire che il panico è ciò che fa emergere la verità della nostra condizione esistenziale di abbandono, di inermità, di Hilflosigkeit, come direbbe Freud. Il nostro compito è quello di entrare in contatto con essa, e non di fingere di non conoscerla. I bambini possono ingannarsi, ma l’età matura ce lo impedisce e ci obbliga a confrontarci con questa dimensione dall’apparenza devastante che non ci abbandonerà mai. Una volta in rapporto, per non rimanere paralizzati, dobbiamo addentrarci nelle pieghe del linguaggio della paura. Il nostro desiderio di onnipotenza e di difesa narcisistico deve necessariamente confrontarsi con la vita, che ci impone sempre la relazione con la realtà e con la paura di esserne inadeguati, indegni.
Grande rilevanza nella condizione panica ha anche la autonomia del soggetto, la separazione e la conseguente ansia di separazione. Questa rilevanza trae le sue fondamenta dal lavoro di John Bowlby che mette al centro ed all’origine della vita psicologica l’attaccamento, perno attorno a cui ruota la vita di tutta la persona. In questo caso il sintomodi panico si origina da un mancato riconoscimento delle figure primarie, da una non adeguata integrazione degli oggetti-Sé e da compromesse identificazioni con le figure significative. Il soggetto sente un’assenza fisica dell’oggetto, “mancanza della madre”, del contenitore, dei legami interni. La difficoltà di separazione determina complicazione, il soggetto non è risolto e la sua dimensione interiore non gli permette di tollerare angoscia e dolore, di considerare l’ambivalenza che si genera fra bisogno e amore, tra desiderio e paura. Se invece nella dinamica di sviluppo il soggetto avrà relazioni precoci disturbate, con esperienze traumatiche dell’attaccamento, la personalità risulterà mancante impotente. Il segnale d’angoscia sarà la castrazione come ci insegna Freud, comunque la mancanza di qualcosa. In generale la separazione-castrazione continuerà a rappresentare una minaccia, un fattore molto ansiogeno che trasversalmente attraverserà tutte le fasi evolutive e di vita dell’individuo.
Durante la terapia per il panico, l’analista e il paziente si spingono insieme gradualmente fino ad accostarsi alla situazione terrifica, per comprenderne il significato, cosa che viene sempre evitata dal soggetto, il quale sente che potrebbe esserne schiacciato. L’evitamento continua nella situazione patologica con il tentativo di sottrarsi a ciò che ci incute angoscia con il risultato di una fuga da tutta una serie di esperienze. Allo stesso modo nella condizione normale non volere entrare in relazione con la paura, significa fuggire dalla vita stessa. L’analisi deve piano piano esporci a queste sofferenze e curarci. Se non conosciamo questa dimensione non avremo alcun modo di accorgerci della nostra nudità e, quindi, non riusciremo mai a prendere in mano la nostra vita.
Osservando il panico, e prendendo spunto da esso, non possiamo non notare che nella condizione panica l’uomo rimane separato da una sua parte inconscia, ne è scisso, e purtroppo ne subisce l’irruenza nel corpo sintomatico. In senso mitologico queste persone sono catturate, rapite, invase, sedotte dal dio Pan che con le urla, il rapimento e lo stupro cagiona paura smisurata e sgomento: è panolessia, in altre parole possessione dell’uomo da parte del dio che lo estranea e gli fa perdere le caratteristiche umane. Pan ci assale e ci induce a contenuti inconsci primordiali ma proprio per questo ci permette una comprensione di noi stessi. La figura di Pan nell’erezione e nella paura, deve essere il mezzo attraverso cui il soggetto raggiunge le parti più oscure della psiche, ‘le caverne’.
Pan è sì responsabile della nostra frenesia e della nostra paura, ma allo stesso tempo guarisce. Per questo vi sono affinità tra Pan e Asclepio, entrambi guariscono per mezzo dei sogni, in particolari località, a loro care. In mitologia il suo potere taumaturgico è espresso nel mito di Amore e Psiche, dove Pan soccorre Psiche in preda alla disperazione. Nella favola raccontata da Apuleio, Pan protegge Psiche dal suicidio. Sconsolata, senza amore, negato l’aiuto divino, l’anima è presa dal panico. Psiche si butta nel fiume che la rifiuta. In quello stesso momento di panico, Pan compare con il suo lato riflessivo Eco sua ninfa e persuade l’anima. Pan è al tempo stesso distruttore e preservatore, come d’altronde lo è la natura. Quando siamo presi dal panico non sappiamo mai se si tratti del primo movimento con cui la natura si appresta ad elargirci qualcosa, se siamo capaci di udire l’eco della riflessione, oppure se il malessere è la natura che ci sta dominando.
Perché Pan è psicopatologico? Perché evidenzia la scissione di dio e capro, nella sessualità dove è presente divinazione e forza animale, perché è l’orrore della natura nell’incubo e nel panico e perché rappresenta l’esistenza individuale. Il capro solitario è infatti sia l’unicità che l’isolamento. E’ l’eterno puer, l’elfo con il piffero che chiamiamo Peter o il profondo Sé emotivo che è sempre un bambino abbandonato.
L’irruzione del dio Pan diviene un meccanismo psichico per correggere l’Io troppo irreale. L’espressione corporea si rende necessaria perché i contenuti emotivi non possono essere pensati. Panico e incubo si presentano quando la psiche è già vittima dell’angoscia e della sessualità. L’orrore è già iniziato e la coscienza riflessiva corre il pericolo di essere sopraffatta e violata da quel mondo fisico di Pan. Ma la trasformazione della coazione non è un problema della coscienza che deve agire sull’inconscio, come la volontà che agisce sull’immaginazione, al Super-Io che agisce sull’Es, o alla mente che agisce sul corpo. Il mito ci spiega che Pan ha bisogno delle Ninfe, e che curano insieme come nella favola di Apuleio, la corporietà di Pan deve incontrare un contenuto psichico, la Ninfa. Il mito Pan e le Ninfe tiene insieme natura e psiche, dice che gli istinti sono riflessi nella mente e che psiche e istinto sono in ogni momento inseparabili. Ogni terapia che non riconosca psiche e istinto quale è presentata da Pan, preferendo un lato all’altro, insulta Pan e non guarisce. Non possiamo far nulla per la psiche senza riconoscerla come natura ‘dentro di noi’ e non possiamo far nulla per l’istinto se non teniamo a mente che esso ha una propria intenzione psichica.
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