Il sogno uno sguardo interpersonale
Gentili colleghe e Colleghi
Chi mi conosce meglio sa che utilizzo molto i sogni nella clinica, ma oggi non intendo parlare dell’analisi dei sogni, ne cosa abbiano a che fare con il sapere, invece voglio mettere a fuoco prima il sogno nella dimensione relazionale e poi interpersonale. Quindi sorvolerò se sono un prodotto della condensazione sulla corteccia celebrale di stimoli provenienti dalla zona periacquiduttale del tronco, bulbo e ponte encefalico, se i sogni siano, seguendo la concezione fisiologica freudiana, espressione di un inconscio rimosso legato al corpo. O più semplicemente un residuo del pensiero che trova il suo punto di arrivo nella messa in sequenza di immagini con un senso, un’alfabettizzazione di tutta una serie di stimoli sensoriali e protoemotivi (Bion). Non vorrei neppure occuparmi dell’Inconscio, anche nella formula concettualizzata da Levenson e più vicina alle nostre deduzioni: perciò di una dimensione non “scavata” o “nutrita”, ma che può essere “intravista”, – in particolare nei suoi aspetti non formulati. Seguendo questo riferimento altri autori parlano del conosciuto non pensato (Bollas, 1987), di inconscio passato (Sandler e Sandler, 1987) credo che si riferiscano a quelle aree della mente che appartengono ad un inconscio non rimosso legato alla memoria implicita (Mancia, 1985); che si presentano in analisi in forma criptica e in modo più chiaro nelle immagini oniriche. O ancora se essi provengano da una struttura, formalizzata da C. Lévi-Strauss come “strutturalismo”, e presa in prestito da Lacan e Matte Blanco come appunto struttura della mente, per parlare di sogni; cioè di un sistema autonomo che preesiste all’esperienza del singolo, e lo definisce. Ne delle teorie junghiane che rivalutano i fenomeni onirici e soprattutto la loro funzione originaria, secondo Jung, parlare di sogni significa parlare di Inconscio, e l’Inconscio ci determina.
Spero che il mio fare non sia interpretato come un atteggiamento altero verso queste teorie, esse individuano tutte prospettive interessanti degne di nota e di approfondimenti. Però dilungarmi su questi concetti mi porterebbe lontano.
Oggi la maggior parte degli psicoanalisti è lontana dal sostenere l’originale impostazione di Freud che a quel tempo proponeva il concetto di interpretazione come un lavoro di decifrazione delle manifestazioni dell’Inconscio. Lo stesso Freud si allontanò progressivamente dalla sua stessa impostazione iniziale e di fatto, nel 1926, pubblicò un interessante lavoro intitolato “Il problema dell’analisi condotta da non medici”, dove immaginava un dialogo con un interlocutore virtuale, sulle peculiarità della psicoanalisi. In questo lavoro, affrontava anche, il problema della fragilità dell’interpretazione attribuendo a questo interlocutore un commento critico circa la natura e la funzione terapeutica della stessa. Freud, attraverso le parole di quest’ultimo dichiarava: “Interpretare! Che brutta parola! Se tutto dipende dalla mia interpretazione, chi mi garantisce che interpreto correttamente? Tutto allora è affidato al mio arbitrio” (OSF, 10). A questo punto per trovare assunti della tecnica sul sogno ormai accettati dagli psicoanalisti relazionali e non, direi di fare un salto di 70anni per arrivare ad Odgen (1999): Per l’autore la vitalità dell’esperienza analitica non risiede nell’interpretazione che ne traduce il senso, quanto nella capacità di sognare o simbolizzare, nel processo di sviluppo di una funzione immaginativa o di pensiero. Quel che conta, non è tanto la decodificazione del linguaggio parlato delle immagini, di per se inevitabilmente riduttiva del testo onirico, ma semmai le reverie del paziente e dell’analista, la dinamica relazionale delle due soggettività e il dialogo del tranfert, che ne espandono le potenzialità di senso. Questa impostazione prevede che quando uno ha decifrato il significato del sogno, ha perso contatto con la vivacità elusiva dell’esperienza del sognare, e al suo posto ha creato un messaggio piatto, crudelmente modificato. Al contrario, Odgen, invita l’analista all’esperienza di essere alla deriva a farsi portare dalla corrente della reverie per avvicinarsi alla verità delle emozioni del paziente. Mi vengono in mente, e spero anche a voi, momenti di forte stallo di fronte ad un sogno nei quali lo psicoanalista non riesce a produrre nessuna interpretazione e poi quasi attraverso un’intuizione inaspettata, direi salvifica, riesce a trovare un’aderente ed emotiva interpretazione, sicuramente, in quel momento, abbiamo fatto esperienza di un’area transizionale nel senso winnicottiano del termine, dove sono presenti gli oggetti, le fantasie e la realtà. Inoltre Odgen raccomanda al linguaggio di non saturare troppo il significato, bensì di essere allusivo, più che dimostrativo, eclettico, quasi musicale. Aggiungo che lo stare nell’incertezza, come sosteneva Brizzi, alimenta un tempo di sospensione che produce un humus necessario per pensare (Brizzi, 2009). Il racconto del sogno, la trascrizione delle immagini oniriche in un metalinguaggio, si annuncia già come una comunicazione densa di significati, epifanica, fortemente investita di affetto, e in un modello di campo narratologico persino elementi fortemente soggettivi, come il sogno del paziente, appartengono al campo. E la coppia lavora nel trovare significati, nel trovare macchie cieche, uscendo e rientrando nel lavorare zolle o dissolvere contenuti beta, ma anche creando spazi nuovi, raggruppando emozioni, chiarendole, focalizzandole. Usando i vari personaggi per accostarsi a contenuti perturbanti, pur nella certezza dello psicoanalista che la comunicazione ha a che fare con emozioni addensate e teneri sentimenti, in attesa di focalizzazione. Così come evidenzia Ferro in un gioco teatrale serissimo, che smaschererà l’illusione referenziale e la retorica del reale, coinvolgente per entrambi, consente di raggiungere livelli inusuali di immediatezza e affettività, al servizio della crescita mentale (Ferro, 2007). In tutti i casi è possibile ritenere che il paziente si serva inconsapevolmente del racconto dei sogni come di una forma comunicativa per trasmettere all’analista quali siano i suoi bisogni di cura e quali le sue aspettative, i suoi timori nei confronti del lavoro terapeutico, determinando un vertice informativo sulla relazione duale (Waiss, 1999; Ferro, 1993).
Così sin dai tempi di Asclepio ci si addormenta e si sogna i mezzi per guarire, che vengono indicati nella loro forma naturale o come simboli o immagini.
Queste tecniche applicative sui sogni sembrano ormai accettate, direi di spostarsi in direzione interpersonale e per fare questo ripartirò da Freud.
Osservazioni sulla teoria e pratica dell’interpretazione dei sogni (1922, OSF 9). Freud si dibatte in queste pagine sull’influenza del medico e sulle eventuali suggestioni provocate dall’analista sui sogni del paziente, sui sogni convalidanti, inoltre su quelli che ricalcano l’analisi o ne allargano i significati, e addirittura quelli che divengono sogni compiacenti, spinti nel significato per soddisfare il desiderio dell’analista. O quelli che esplicitamente durante la loro analisi non esprimono che una dimensione legata alla dinamicità del tranfert. Inoltre, vi ricordate l’articolo precedente di Freud del 1926! Aveva un seguito: Oltre ai contenuti sull’interpretazione, Freud, con un intrigante svicolare, proponeva una nuova idea che introduceva di fatto il fattore soggettivo nell’analisi dei sogni: “E’ molto questione di una certa sensibilità, per cosa dire di una certa finezza di orecchio per i processi inconsci. E’ questione di tatto e con l’esperienza si può affinarlo assai” (OSF, 10).
Sollecitato da queste considerazioni, per prima cosa, tendo ad allargare l’osservazione sull’inconscio interpersonale e a metterla in relazione al sogno, prendendo in prestito il pensiero di Mitchell e il suo punto di vista, appunto, sull’inconscio interpersonale, si tratta dice l’autore: “di uno sconcertante repertorio di configurazioni o personificazioni di sé-altro interiorizzate, legate a identificazioni con alcune figure-chiave e ad un’inclinazione a ripetersi”. L’autore arriva a concludere che la mente è composta da configurazioni relazionali (Mitchell, 1988). Osservo che di dinamiche relazionali e pattern comportamentali sono ricche le immagini oniriche, e seguendo la tesi citata, deduco che i sogni corrispondono in pieno a questo processo della mente.
Se invece mi sposto sulla relazione, ricordo che l’analista interpersonale è lontano da certezze analitiche e ritiene che bisogni e desideri siano co-costruiti da paziente e analista, come in ogni interazione. E l’Inconscio, perciò, non è un’entità oggettiva e singolare ma un’esperienza collocata nella storia interpersonale. Così l’esperienza inconscia diviene, co-creata. Seguendo questa posizione, anche l’esperienza inconscia prodotta nel sogno del paziente contribuirà a costruire l’inconscio del paziente, dell’analista e della coppia analitica. Altri analisti interpersonali pongono l’attenzione sul significato più radicale dell’osservazione partecipe, puntando sui processi interattivi, così come sono vissuti all’interno dell’interazione analitica. In questo modo, lottando insieme per dare voce a ciò che non è formulato, paziente e analista immaginano legami scomparsi nel tessuto dell’esperienza (Mitchell, 1988). Paziente e analista costruiscono narrazioni che sono le migliori approssimazioni di ciò che non è espresso nella storia del paziente. Mi sento in ciò, in completo accordo con Hirsch che definisce il progresso terapeutico come “la scoperta di vecchie configurazioni misconosciute e la creazione di nuove configurazioni mai sperimentate”. (Hirsch, 1995). Se estremizziamo questa dimensione piuttosto che interpretare il contenuto inconscio di un sogno del paziente, analista e paziente descrivono insieme l’enactment che riflette il contenuto dell’esperienza inconscia, e questo è possibile perché l’analista partecipa involontariamente al transfert del paziente, e la relatività dell’Inconscio non può mai essere pienamente conosciuta se non quando è vissuta nella soggettività della relazione analitica del qui e ora. Addirittura Walter Bonime (1962), un analista americano di non dubbia impostazione interpersonale, critica la riduttività e la devianza delle interpretazioni classiche dei sogni, che andando alla ricerca del simbolismo sessuale, dimenticano proprio il significato affettivo espresso nel contenuto manifesto e nell’atmosfera narrativa.
Nella consegna di un sogno in analisi, da parte del paziente, vi è il dare qualcosa di sè per essere interpretato, l’usare la mente di un altro per decifrare i contenuti della propria, una richiesta-funzione di Io-ausiliario che soprattutto pensa ed elabora i contenuti di un proprio processo psichico. Una richiesta di funzione alfa da parte dell’analista ma anche una vera e propria identificazione proiettiva, a proposito di circolarità esistente tra paziente e analista. Nel contenuto di identificazione proiettiva, formulato per la prima volta da M. Klein nel 1946 vi è una proiezione inconscia di aspetti della propria vita psichica (emozioni, idee, vissuti fantasie, ecc) su di un’altra persona, sono parti di se buone o più facilmente cattive allo scopo di sbarazzarsene, in quanto ritenute un pericolo. Ma questa è solo una delle tre fasi come le descrive Ogden (1979, 1982). Salto la seconda, che, siccome è caratterizzata da una continua pressione interpersonale esercitata da colui che proietta, su colui che riceve la proiezione, non riguarda direttamente il sogno. Nella terza fase Odgen ci parla di reinternalizzazione, in quanto la parte prima proiettata verrebbe ora rinternalizzata. Prima il terapeuta riceve la proiezione la metabolizza, la contiene, e poi la restituisce al paziente trasformata pronta per la reinternalizzazione. Traspare, da questi contenuti, il tema bioniano di identificazione proiettiva come condizione in cui la madre contiene e trasforma con la sua reverie, le proiezioni del bambino in modi che rendono tollerabile l’intollerabile (Bion, 1962). Egli paragona questa funzione con la funzione di contenimento dell’analista. Vi sono molti esempi di questo, nel lavoro clinico, in cui il paziente è in grado di esplorare un’esperienza intollerabile solo attraverso qualcun altro. In questo caso sembra che ciò che promuove il pensare sia la libertà dalla frustrazione – cioè l’opportunità di esplorare l’esperienza in qualcun altro, che la può sentire e pensare profondamente. E questo produce uno sviluppo del pensiero, un sistema protoemotivo che abitua il paziente a riflettere a contenere l’emotivo, a produrre elaborazioni, e il sogno da questo punto di vista è uno straordinario aiutante durante la cura. Ma c’è dell’altro secondo me, riflettere sui sogni aiuta a pensare, ad evidenziare le categorie narrative implicite ai processi che guidano l’osservazione, e soprattutto l’attribuzione di senso determina la costruzione del soggetto e la costruzione dell’inconscio del soggetto. E’ importante per i pazienti identificare bene uno stato emozionale prima di essere in grado di riconoscerlo come appartenente a loro; soprattutto quando hanno una scarsa strutturazione emotiva del loro Inconscio o anche dei processi primari. Schore (1996; 1998) ha ipotizzato che la sede dell’inconscio sia localizzata nella corteccia prefrontale destra e che, quando stiamo lavorando con pazienti borderline, il problema non è quello di rendere l’inconscio cosciente, ma quello di ristrutturare o anche di strutturare l’inconscio. Seguendo l’Alvarez (1984) e Schore penso che un’importante componente del Sè, provenga dal riconoscimento di un sentimento come familiare e che, più o meno, proviene dall’interno di sè. I pazienti hanno bisogno di essere aiutati a percepire il tempo della mente, a soffermarsi sull’oggetto, oppure sull’Sé, ad indugiare sull’esperienza. Così da riflettere su ampie porzioni di esperienza non formulata ed integrare l’esperienza verbale di esperienze dissociate (Hoffman 1995, Hirsc, 1995). Il fatto di inserire all’interno di un campo emotivo, il cui funzionamento è spesso riconducibile, di per se al paradigma onirico, un sogno vero e proprio, permette di azzerare quei resti di responsabilità morale ancora adesi al sogno, e questo determina un incremento di verità emozionale, di pregnanza delle trame e dei riconoscimenti. E’ come se il paziente si facesse spettatore con l’analista, del suo stesso sogno, allestendo uno spettacolo che li comprende entrambi come attori dei nuova piece teatrale. Mai come nel chinarsi insieme ad osservare il sogno, che a differenza di altre narrazioni, è recepito dal suo autore in modo passivo, attraverso la lente del setting, psicoanalista e paziente si ritrovano a gomito a gomito. Per spiegare come utilizzo i sogni in terapia mi sembra opportuno fare una corrispondenza tra il lavoro sul sogno di analista e paziente e la tecnica dello scarabocchio intesa da Winnicott. La visione di Winnicott sulla figura dell’analista, prevede che questa non rispetti la neutralità classica, anzi non si limiti solo a giocare col paziente, ma anche a fare egli stesso se ritenute opportune delle libere associazioni, l’importante, secondo l’autore, è trovare un punto di incontro su cui lavorare. Nei colloqui clinici con i bambini Winnicott rivela che l’importanza del gioco dello scarabocchio stia nella creazione di uno spazio transizionale, nel quale esprime e creare forme e movimenti nuovi, una libertà, uno spazio creativo. Rispondendo alla richiesta e trasformando lo scarabocchio in qualcosa di riconoscibile e condivisibile, il bambino e l’analista, oltre ad produrre un esempio del proprio mondo interiore collaborano alla costruzione dell’inconscio. Lo stesso avviene con il sogno, il paziente porta un sogno e l’analista invita il soggetto a produrre libere associazioni, servendosi poi delle rispettive attribuzioni di senso la coppia determina un campo dove insieme cercheranno di dare un significato il più possibile compiuto ad un impasto emotivo pieno di dimensioni inconsce e riflessioni coscienti, oltre a dare, cosa di non poco conto, intensità ad un’esperienza congiunta.
Come a testimonianza della concretezza dei miei suggerimenti sulla tecnica dei sogni e delle mie teorizzazioni sulla presenza di un impasto emotivo di menti che si incontrano di fronte al sogno, e poi concludo, tratterò sinteticamente i sogni dell’analisi di paziente e analista. Essi sono la palese manifestazione sul piano espressivo-formale di un livello in cui l’analista e l’analizzando compaiono senza mascheramenti, in cui si figurano situazioni chiaramente legate al contenuto manifesto e si forniscono indicazioni sul tranfert e sul controtranfert. Si potrebbero chiamare sogni della cura o sogni sull’analisi, sogni in cui scrive Neyarut (1974), è come “se l’analisi stessa fosse diventata una storia e costituisse la sua propria storia, come se diventasse il proprio contesto”. E’ interessante osservare in proposito anche i contenuti di Numberg 1951; Gitelson 1956, Rappaport 1959, che ci offrono indicazioni tecniche di ordine quasi prescrittivo sui sogni della cura, che possono essere indizio di una mancata attivazione del tranfert. Aggiungo, il paziente e l’analista tendono a neutralizzare e a sospendere il clima di neutralità e privazione in cui l’analisi “dovrebbe” svolgersi, per lasciare spazio ad una relazione interpersonale, e il sogno appare un ovvio derivato del senso di colpa, non solo Edipico, originato dal carattere trasgressivo della mise en scène del setting.
Concluderei con le parole di molti pazienti: “Ma allora potrei riconoscermi, in qualche personaggio delle mie scene oniriche, questo sono io!”, e qui è come se il soggetto ripetesse la sua indagine ossessiva sulle composizioni e scissioni dell’Io e, in parte, si sentisse ancora una volta solo nel riconoscersi, ma questa volta può vedersi riflesso nell’altro, così l’Io e il Sè può nascere a se stesso.